La Provincia di Lecce

La Provincia di Lecce

Settimanale nato il 5 giugno 1896 con la direzione di Nicola Bernardini, che staccatosi dal “Corriere Meridionale” fondò un giornale di espressione delle sue idee di liberale moderato della scuola di Spaventa e di Poerio. Coadiuvato dalla moglie Emilia Macor (Ermacora) riuscì a creare un giornale eclettico. Pur essendo legato in gioventù all’on. Giuseppe Pellegrino, il Bernardini fu aspro avversario come uomo politico. Egli lo combatté ad oltranza ritenendo il suo programma esiziale per l’economia del bilancio cittadino e perché lo credeva legato all’esponente del partito avversario, il radicale on. Vito Fazzi. La “Provincia di Lecce” fu spesso attaccata e principalmente da Pietro Marti e non poche furono le vicende giudiziarie che ne seguirono. La soddisfazione per l’avvento al potere di Mussolini si tramutò, entro un anno, prima in perplessità e poi in un’intensa amarezza: la prima irruzione fascista nella casa di Nicola Bernardini, il progressivo spostarsi del giornale su posizioni critiche, la dura condanna della legge sulla pena di morte, il deciso silenzio sull’opera del fascisti, locali e non, gli procurarono un isolamento dagli altri periodici di estrazione liberal-borghese. Già nel 1919 Francesco Bernardini commentava l’impresa di Fiume del D’Annunzio come l’apologia di un irrazionalista figlio del tempo: “Vi sono atti nella vita degli individui, come in quella dei popoli, che han carattere, dirò meglio, essenza spirituale, e non possono essere intesi e valutati, se non da coloro che vivono nello spirito. Tale per me il gesto di Gabriele D’Annunzio nell’audace impresa di Fiume; giacché la ragione nega la fede, e l’atto di D’Annunzio e dell’ardimentosa falange di cui è alla testa, è purissima fede: giacché la ragione uccide l’amore, e l’atto di D’Annunzio è amore; giacché infine la ragione non ammette il sacrificio, e l’atto del poeta-soldato è spontanea offerta. Coloro i quali hanno nella vita non altro che il tornaconto e la soddisfazione di bassi istinti, i politicanti ... non hanno il diritto di interloquire ... Evviva D’Annunzio! Il suo gesto ci riscatta davanti al mondo, davanti alla storia...”. Il linguaggio era celebrativo-nazionalista e la matrice era quella che segnava il passaggio di tanti nazionalisti al fascismo. Su la “Provincia” del 13 marzo 1921 si sottolineava che “noi non fummo entusiasti delle istituzioni dei fascisti perché credevamo e crediamo che in un paese civile, in cui lo Stato con i suoi organi è in piena efficienza, spetti ai pubblici poteri di mantenere l’ordine e di far osservare le leggi. Ma abbiamo dovuto riconoscere che contro l’opera dei comunisti la sola azione dei pubblici poteri sarebbe stata insufficiente. E’ fatale che trascinati dalla violenza altrui, l’azione dei fascisti abbia ecceduto in qualche momento ..., ma è oramai certo che l’azione dei fascisti si è rivelata opportuna, necessaria, efficacissima”. Era la prima volta che la parola “fascista” entrava nel vocabolario usuale del giornale. “La Provincia” accusava i socialisti di “aver aggredito per tanti mesi impunemente la buona e inerme borghesia”, ma teneva a precisare che “la lotta, se dev’essere a fondo contro i comunisti, non deve però mutarsi in una rivincita della reazione, o almeno degli elementi più retrivi, contro le forze sacre ed operose del socialismo e delle sue tendenze affini. In altre parole, le elezioni non dovranno essere il pretesto di una lotta contro le tendenze sane e vitali del socialismo che persegue una via parallela alla nostra e non contrastante ...”. Infatti secondo la Provincia la sporadicità delle insurrezioni popolari era conseguenza della non omogenea propagazione della “violenza rossa” che sarebbe stata allontanata se i fascisti avessero fatto più proseliti “mantenendosi lontani dagli estremismi, se sarà bandita la religione della violenza”. E proprio dalla violenza “la Provincia” appare la più delusa: “E’ una situazione scandalosa che i due partiti che dovrebbero concordemente convergere allo stesso fine, si sono sanguinosamente combattuti; ciò dimostra all’evidenza come in essi non vibri la purezza dell’idea, ma soffi invece la passione o il rancore delle persone” (4 feb. 1923). Nel numero successivo estendeva le accuse: “Se la violenza può giustificarsi come misura coercitiva di eccezione e in contingenze che la rendono dolorosamente necessaria, non può e non deve ammettersi che essa sia elevata a sistema, senza tornare di dieci secoli indietro ... Quando vi sono fascisti che credono di esaurire il loro programma, somministrando una forte dose di olio di ricino o bastonando chi possa avere una fede politica diversa, bisogna concludere che si impongono provvedimenti energetici per epurare il fascismo da elementi che lo disonorano ... Non più dunque inni all’uso dei manganelli e del petrolio, non più imposizioni, non più minacce, non più risse, ma canzoni che esaltino la patria, inni all’aratro e alla vanga, al martello e all’incudine...”. L’articolo non venne accettato dai fascisti locali soprattutto per la frase “or no può più revocarsi in dubbio che nei nostri fasci, tranne lodevoli eccezioni, hanno trovato posto, e qualche volta direttivi, gli sfruttatori di tutti i partiti”, fu così organizzata una “lezione” per il direttore della “Provincia”, Nicola Bernardini, cui fu saccheggiata la casa e rivolte pesanti minacce. Dal 1923 le frecciate al P.N.F. si susseguirono con una certa frequenza: in occasione della visita dell’on. De Capitani nel Salento avvertiva che “noi avremmo desiderato che al ministro si fossero mostrate anche le nostre miserie, le nostre paludi infernali, dove muoiono i lavoratori tenaci ed eroici, e dove ancora non arriva la luce e l’aiuto dello Stato ... Fino a quando non si comprende che le visite degli uomini politici debbono essere più lunghe e contenere meno spettacoli coreografici, noi vivremo sempre non conosciuti e non compresi...”. Nel giugno 1924 con la collaborazione dell’avv. Gustavo Ingrosso si imprimeva l’ultima svolta nel processo di allontanamento dal fascismo. Al progetto di limitazione della libertà di stampa “La Provincia” registrava una “profonda umiliazione, al sol pensiero di vedere così svilita la propria missione e di dover compiere il sacrificio più grave: quello di far tacere il bisogno di gridare la nostra passione”. Il giornale chiedeva che “il diritto alla libertà sia vissuto senza dittature, senza rassisti, senza milizie, cose tutte che alla nostra cultura affiorano come tristi ricordi storici di tempi calamitosi, inceppanti l’evoluzione del pensiero umano”. Esplicitamente si esortava il re ad intervenire per “comandare all’Italia di tornare per la stessa via, là donde incautamente due anni fa volle dipartirsi”. Già nel 1922 “La Provincia” aveva scritto: “... Però se per disgrazia il fascismo dovesse fallire allo scopo e deludere la grande aspettativa della nazione, noi non perderemo per questo la fiducia nei destini della nostra stirpe ma grideremo: Abbasso il Governo, viva ‘Italia!”. L’ultimo numero fu del 24 ottobre 1926: il giornale fu soppresso con decreto ministeriale. In quell’occasione ci furono dei tentativi di intercessione da parte di alcuni fascisti locali, ma il decreto non sarebbe mai stato revocato” per la vuota presunzione di un vecchio pensiero, l’incomprensione di questi tre anni di storia, e il netto spirito antifascista”.

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