“Gli schiavi di Hitler” così sono stati definiti i milioni di uomini e di donne che lo Stato nazista sfruttò ponendoli in condizioni di lavoratori coatti e in regime di schiavitù, attraverso la deportazione, l’internamento, la prigionia, fino all’annientamento, violando tutti i diritti umani. O anche gli oltre settecentomila italiani militari e civili che tra l’8 settembre 1943 e l’8 maggio 1945 furono deportati ed internati in Germania, per circa due anni e giorno dopo giorno costretti a servire l’economia e la macchina da guerra del regime hitleriano privandoli dello status di prigionieri di guerra e sottoponendoli a trattamenti inumani.
Nulla potrebbe risarcire le ingiustizie e le sofferenze umane subite e la medaglia d’onore concessa loro dal Governo Italiano non è che un simbolo che molto spesso arriva a coloro i quali hanno perso già la vita. Ma Gaetano De Vita, classe 1920, n. 99083 della baracca 21A Stalag XB del campo di internamento di Sandbostel, dove fu deportato e dove visse per 20 mesi perché non accettò l’adesione alla Repubblica Sociale Italiana né alle formazioni delle S.S. e che ottenne la medaglia il 2 giugno 2016, un anno prima di morire, diceva “non voglio nulla dal Governo tedesco perché nulla può cancellare o sminuire ciò che hanno fatto, ma dal Governo Italiano, dalla mia Patria la medaglia la voglio!” Così la biblioteca pubblica arcivescovile “A. De Leo” si occupò della richiesta, come in fondo è stato fatto il 6 febbraio del 2020 per il capitano maggiore Rocco Silvestri.
Nato ad Ospedaletto d’Alpinolo nell’ottobre del 1922 da padre brindisino venne catturato il 18 settembre del 1943 dai tedeschi a Creta mentre partecipava alle operazioni nel Mediterraneo con il Regimento Fanteria. Era arrivato in Grecia via terra e si era imbarcato al Pireo alla volta di Candia. Da lì fu condotto nello Stalag IV F, campo di internamento, o “di rieducazione al lavoro”, nei pressi di Dresda con il numero 109079 e prestava il suo servizio a Bannewitz in Sassonia come “metallhilfsaebeiter” (lavoratore di metalli). Così riportava la sua “arbeitskarte” (carta di lavoro), lì in alto al centro la scritta “IMI”.
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